Contro il DSM-5 per una nuova psichiatria

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 08 giugno 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]

 

L’avvento delle neuroscienze, ossia di una casa comune per tutte le discipline che si occupano di cervello e mente dalla neurochimica alla psicopatologia, aveva fatto ben sperare quanti erano impegnati nella traduzione clinica e pratica delle scoperte e dei progressi ottenuti in singoli campi e settori delle scienze del cervello, e sicuramente conforta il fatto che siano cadute molte barriere e steccati che separavano saperi e professioni. Ma, a fronte di uno sviluppo straordinario delle conoscenze neurobiologiche e neurofisiologiche di base, non si è registrato un parallelo progresso della cultura e della pratica psichiatrica. In particolare, si assiste ad una deriva globale verso un uso sempre più frequente e generalizzato del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association (APA), non più come sussidio per la comunicazione professionale a scopo statistico, ma quale opera di riferimento per l’insegnamento, lo studio e la pratica della clinica psichiatrica. Tale deriva, che generalizza non solo i limiti di una concezione nosografica e diagnostica spesso condizionata da criteri di compromesso utilitaristico, ma anche errori oggettivi che molti psichiatri hanno denunciato da anni, è da considerarsi un vero problema, perché allontana quel cambiamento ispirato alle nuove conoscenze che tanto ha impegnato in questi anni molti nostri soci.

In un incontro tenuto lo scorso mercoledì, dopo aver passato in rassegna i progressi neuroscientifici che suggeriscono radicali cambiamenti di criteri e approccio alla pratica clinica, sono stati discussi quei limiti del DSM-5 che già nel 2012, un anno prima della pubblicazione della versione definitiva del volume, erano stati analizzati dal nostro presidente.

L’incontro è stato aperto dalla narrazione dell’esperimento condotto dal 1969 al 1972 da Rosenhan, collaboratori e allievi che, fingendo di avere allucinazioni uditive in 11 diversi ospedali degli USA, dimostrarono lo stato disastroso in cui versava la psichiatria americana e, con la pubblicazione del resoconto sulla rivista Science, indussero la reazione dell’APA, che convocò una commissione che avrebbe portato ai nuovi criteri di diagnosi del DSM-III[1].

Qui di seguito si riporta un brano sulla significatività della diagnosi di cui si è ampiamente discusso.

Negli USA, una persona che si rivolge ad un servizio di diagnosi e cura per una sofferenza psichica, in un numero notevolmente elevato di casi, anziché ricevere una definizione del suo disturbo che esprima in una sintesi clinica le ragioni del suo stato, riceve quattro o cinque diagnosi che corrispondono ad altrettante categorie del DSM. Alla luce delle attuali conoscenze sulla patogenesi dei disturbi mentali appare alquanto improbabile, se non addirittura impossibile, che così tante persone siano affette allo stesso tempo da varie sindromi: è ragionevole supporre che una causa biologica, come un alterato sviluppo cerebrale, o una condizione prevalentemente acquisita, caratterizzata da processi psichici disadattanti, siano responsabili di tutte le manifestazioni sintomatologiche. È di questa opinione anche uno dei membri dello staff dell’APA, Steven Hyman, che ha attribuito il problema delle diagnosi multiple all’eccessiva somiglianza fra le checklists che consentono di identificare i singoli disturbi.

Potremmo dire che questo primo rilievo riguarda la significatività delle diagnosi poste secondo i metodi del manuale, anche se la commissione non si è espressa in questi termini, e temo che questo modo di concettualizzare il problema vada un po’ oltre la preparazione in semeiotica medica della media degli esperti consultati. Cosa intendo per significatività? In medicina, quando non si riesce a porre subito una diagnosi eziologica precisa, si cerca di formulare un giudizio il più possibile vicino alla realtà del processo patologico del paziente: il grado di vicinanza di tale giudizio diagnostico coincide con il suo livello di significatività. Poniamo il caso di una persona affetta da febbre tifoide, la malattia infettiva causata da una salmonella detta eberthella tiphi o bacillo di Eberth: se la diagnosi fosse, in attesa di approfondimenti, “sindrome febbrile”, sarebbe poco significativa; se invece fosse “enterocolite infettiva”, la sua significatività sarebbe notevole, in quanto prossima all’esatto accertamento causale e già in grado di orientare verso un trattamento con antibiotici ad azione intestinale. La definizione di “sindrome febbrile” non è in astratto sbagliata, ma coglie un aspetto solo marginale del quadro clinico e non fornisce alcuna informazione sulle possibili cause; pertanto, etichettare come sindrome febbrile una salmonellosi, in clinica medica è considerato un errore.

Mi si perdoni questa breve digressione, nella sua sostanza elementare per i medici, ma necessaria per introdurre al problema della significatività coloro che medici non sono. Ho scelto un esempio di medicina interna per dare un’idea generale del concetto, ma nella clinica dei disturbi che affliggono la mente non mancano certo condizioni che consentono di illustrare le differenze di significatività fra modi diversi di leggere gli stessi sintomi. Possiamo, infatti, proporre un equivalente psichiatrico dell’esempio della malattia infettiva.

Se una persona è affetta da una depressione da stress non ancora diagnosticata per l’atipicità della sua presentazione e, magari, per difficoltà nell’ottenere informazioni precise ed oggettive da parte del paziente stesso, lo psichiatra potrebbe concentrarsi su manifestazioni legate all’ansia o su disturbi del sonno, considerandoli elementi indipendenti e non parte della sindrome ansioso-depressiva. Omettere la diagnosi di depressione da stress, rilevando i disturbi del sonno, è un po’ come definire sindrome febbrile la salmonellosi.

Nella pratica psichiatrica classica della migliore tradizione europea, pur con tutti i limiti rappresentati dall’imperfetta conoscenza dei processi alla base dei disturbi, si tendeva ad interrogare le manifestazioni sintomatologiche plurime per verificarne l’eventuale appartenenza a quadri clinici complessi, verosimilmente riconducibili ad un unico processo o ad un unico insieme di processi strettamente interdipendenti. In molti casi, questo lavoro diagnostico richiedeva un notevole bagaglio di conoscenza derivante dall’esperienza, che includeva la capacità di discernere il valore assoluto e relativo delle singole manifestazioni, riconoscendo, ad esempio, i sintomi “non diagnostici”, ossia presenti nel quadro clinico ma irrilevanti ai fini della diagnosi. Era, in genere, l’esperienza dello chef de clinique, ossia del professore di psichiatria che aveva osservato e studiato un grandissimo numero di casi nella propria carriera, a consentire di mettere ordine nel complesso dei dati di osservazione, riportando i valori assoluti e relativi di ciascun segno e sintomo ad una coerenza complessiva. Queste “diagnosi operative”, che andavano oltre lo statico riferimento della nosografia, erano il cuore della clinica psichiatrica e, anche se spesso facevano riferimento a criteri non generalizzabili, quali la rappresentatività di alcuni sintomi o l’importanza di un particolare fattore nel precipitare uno scompenso, avevano una verifica nel monitoraggio costante e nelle variazioni del quadro clinico, quale parte del processo di diagnosi continua, ossia una procedura basata su un approccio opposto a quello del DSM. Mi piace ricordare che, adottando questa procedura, si poteva impiegare il criterio della verifica prognostica per confermare o correggere una diagnosi in quanto, nella maggior parte dei casi, i dubbi sussistono fra disturbi diversi per andamento clinico e prognosi.

Il problema della significatività delle diagnosi del DSM, e pertanto della loro aderenza e corrispondenza ai processi cerebrali e mentali che generano sintomi, non sembra essere al centro degli interessi dei revisori del manuale che, come ho già accennato, si sono preoccupati della somiglianza eccessiva fra gli elenchi di sintomi delle sindromi e non del fatto che quelle sindromi fossero “giuste” o “sbagliate”, ossia fondate su una autentica e specifica realtà di alterazione mentale; oppure che fosse sbagliata la procedura diagnostica che porta ad identificare come disturbi indipendenti manifestazioni dello stesso quadro clinico.

Il problema è diventato “come evitare che si abbiano più diagnosi parallele”. La soluzione sembra essere stata quella di eliminare più di una dozzina di disturbi, in alcuni casi cancellando la categoria diagnostica, in altri assimilandola ad una più generale.

Anche il secondo limite, rilevato dai ventisette ricercatori presieduti da Kupfer e Regier, attiene alla significatività delle diagnosi del DSM: in un numero rilevante di casi, le manifestazioni cliniche non sono sufficienti per soddisfare i criteri diagnostici della sindrome più prossima fra quelle contemplate, e una frazione considerevole di pazienti presenta un insieme di sintomi che non trova alcun riscontro nelle categorie del manuale. Diretta conseguenza è il ricorso frequente alla definizione, concepita per i casi estremi, di “disturbo non altrimenti specificato”. Per tale ragione si può dire che la commissione abbia registrato il fallimento delle categorie relative alla patologia del comportamento alimentare, rilevando che il disturbo dell’alimentazione più frequentemente diagnosticato è un eating disorder not otherwise specified.

Le cose non sembra siano andate meglio per i disturbi dello spettro dell’autismo, in quanto la maggior parte delle stime percentuali delle diagnosi poste in questo settore della psicopatologia pediatrica, elenca al primo posto “disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato”. Infine, anche se le critiche alla categoria dei disturbi di personalità, così come è definita nel manuale, sono numerose e note da tempo, i revisori non si attendevano che il terzo, in ordine di frequenza diagnostica, fosse il tipo “non altrimenti specificato”.

Questi esempi sono sufficienti ad evidenziare che il profilo delle sindromi tracciato nel manuale, così come l’apparente precisione suggerita dal dettaglio delle checklists, in molti casi non corrisponda alla realtà: esistono certamente gravi omissioni e categorie superflue, come rilevato dalla commissione di controllo, ma un problema non meno importante è costituito, a mio avviso, dalla frequente costruzione artificiosa dei criteri di diagnosi.

Gli autori del DSM-5 hanno cercato di superare questi limiti eliminando le voci corrispondenti a disturbi del DSM-IV-TR mai diagnosticati, e incoraggiando una raccolta più analitica e dettagliata di informazioni cliniche. Si ritiene che, disponendo di una maggiore quantità e qualità di dati, gli psichiatri potranno più facilmente far corrispondere le manifestazioni sintomatologiche di un paziente ad una delle caselle della tassonomia clinica, in parte rinnovata sulla base di queste osservazioni.

Naturalmente, non è difficile per i medici cogliere il compromesso e misurare la distanza dalla diagnostica medica, in cui il criterio fondamentale è costituito dalla corrispondenza di un quadro clinico ad un processo patologico, così che dai sintomi si possa distinguere, ad esempio, una malattia infettiva da una degenerativa e, su questa base, indicare lo specifico trattamento[2].

La discussione è proseguita dirigendo l’attenzione su contraddizioni quali l’eliminazione di un disturbo per il quale si è giunti alla possibilità di certezza diagnostica con un accertamento biomedico e l’inclusione di categorie di diagnosi estranee alla realtà psicopatologica. Al termine, si è deciso di continuare in un nuovo incontro previsto per la prossima settimana.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura dei numerosi scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-08 giugno 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Per l’avvincente racconto si veda Note e Notizie 30-06-12 Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti (prima parte).

[2] Note e Notizie 15-09-12 Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti (terza parte). Si consiglia la lettura di tutte e sette le parti del “Viaggio nel DSM-5” perché sono dense di informazioni raramente riportate altrove.